Un ricordo di Michele Moio, signore dell’Ager Falernus

 

Il ventotto gennaio scorso si è spento Michele Moio, fondatore dell’omonima azienda vinicola a Mondragone e Signore dell’Ager Falernus.

Lo conobbi molti anni fa, durante una delle tante irruzioni estive nella terra del Falerno. Mi accolse, sconosciuto, con appassionata ospitalità. Fremeva percettibilmente dalla voglia di raccontare prima che il suo vino, il territorio di cui pareva essere servo e castaldo, al contempo.

In via del tutto peculiare, la cantina si trovava, come del resto tutt’oggi si trova, nel fitto e intricato centro della cittadina sul litorale domizio. Non era il mare, però, ad avvertirsi. Dall’ampia corte attorno alla quale gravitavano le fabbriche dell’azienda, si apriva una splendida veduta sul Massico, che dava l’impressione di incombere proprio sulla cantina Moio, sicché l’uomo, indicandone le falde, pareva le toccasse. Era pure la suggestione della narrazione forte.

Michele Moio per quel triangolo di terra era la trasposizione latina e moderna dell’Icario greco, l’agricoltore cui Dioniso consegnò la vite e l’insegnamento per trarne vino. Lui era il depositario di delle segrete leggi e della storia della terra in cui lavorava, della vite che coltivava, del vino che produceva.

Nel ricordo remoto ma vivido (ancora vedo i suoi gesti) mi si figura quasi come arroccato nel suo fortino di Mondragone da cui con tenacia e fierezza teneva aizzato il vessillo di quell’agro e del Falerno autentico, quello da uve Primitivo.

Contestava ferocemente, va detto senza smussature, per evitarne oltraggio alla memoria, il disciplinare della DOC Falerno del Massico, sostenendo che lì, sul monte, l’Aglianico, pure ammesso come vitigno prevalente della DOC Falerno del Massico rosso, non fosse mai stato coltivato. Attribuiva senza mezzi termini, senza diplomazia e senza tacere nomi e cognomi, a pressioni politiche di potenti cantine lo scempio di un disciplinare che ammette per la stessa denominazione due vitigni prevalenti profondamente diversi, quali appunto Aglianico e Primitivo.

Il suo Rosso 57 e il Gaurano mi conquistarono e per un lungo periodo li ho comprati e bevuti come vini sacri del rituale omaggio a un paesaggio culturale e naturale. Credo siano a tutt’oggi le uniche bottiglie che abbia comprato al supermercato. E tutte le volte che ne leggevo o ascoltavo giudizi negativi, come forse ora non accadrà ancora, mi assaliva moto di indignazione.

Con Michele Moio non muore solo un personaggio che ha segnato la storia della vitivinicoltura campana, piuttosto e più gravemente viene a mancare un paladino indomito della dignità di una terra martoriata e vilipesa.