la pizza postmoderna di Verace a Benevento

Nell’area appena più riservata, retrocessa alla sinistra della porta d’ingresso, appeso alla parete, flagellato dal sole come gli occhi e le guance, ma questo è il meno vi assicuro, dei commensali che abbiano la sventura di accomodarsi in quella direzione, l’architetto di questo ennesimo spazio di design posticcio creato con finti mosaici, finti legni, finte piastrelle, finta grafite, ha appeso la gigantografia di una mano che tira tagliolini con la macchina diffusissima nelle case delle nostre nonne e mamme. Sotto le dita che stringono la manovella, a mo’ di occhiello rispetto al titolo “VERACE”, che è anche il nome del locale, c’è scritto “la buona cucina”. Hanno dimenticato di aggiungere “non abita qui”.

Prenoto per una comitiva di sette persone a pranzo e nonostante la sala semivuota veniamo sistemati, forse per punizione preventiva, esposti al supplizio del sole, come del resto, e questo ci preoccupa di più, le bottiglie di oli ed altri condimenti posizionate per l’irradiazione innanzi al banco dei piazzaioli, difronte all’ampia vetrata. Il dispendio di energie e forse di denaro per creare in uno stabile di area industriale un ambiente che apparisse curato, moderno e sofisticato e potesse ben disporre o distogliere gli avventori più suggestionabili dalle mediocri preparazioni, non ha contemplato l’applicazione di tendine frangisole ai grandi finestroni. Libera vista sul panorama, dunque. Piuttosto che in cima a un promontorio affacciato sul mare, però, siamo ai margini di una ruvida e grigia stazione di rifornimento. Panorama da urbe postmoderna.

Autenticamente postmoderne del resto sono pure le fritturine e le pizze: ordinarie, globalizzate nel gusto indistinguibile, appiattite in uno standard di mediocrità come una produzione industriale di massa alla cui dissimulazione non bastano sbraccianti pizzaioli a vista, concretamente espressive di una crisi in cui l’immagine (i pizzaioli, l’ambiente), la pubblicità e lo streaming informativo online, talora interscambiabili, creano un posizionamento ed una percezione che prescinde dalla qualità intrinseca del prodotto.

Googlando “pizzeria Verace” si ottengono 208.000 risultati. E’ chiaro, quindi, che più che l’autenticità si era alla ricerca della sua evocazione.

A proposito di pizze spesso si parla di lunga lievitazione, in questo caso parliamo di lunga digestione. L’assortimento delle farciture è scontato e banale con qualche errore di pregio. La pizza Sannita, tipicamente con la ricotta, qui è proposta con mozzarella di bufala (sannita?), funghi porcini (sanniti?), pomodorino (sannita?) pecorino di lauticauda (forse sannita).

Non c’è dimestichezza con la tipicità beneventana in cucina e potremmo pur essere comprensivi, benevolmente declassando gli errori a equivoci; non si possono, però, tollerare le offese alla cucina sannita. Scrivere scandalo, da leggere in maiuscolo e grassetto, per urlare l’inadeguatezza dei “mezzi paccheri allo scarpariello” è, oibò, necessario. Il condimento è un sugo acidulo e denso, affatto piccante ed aromatico; i mezzi paccheri vi giacciono annegati dentro, quasi come gli gnocchi in un tegamino alla sorrentina. Estratti dalla soverchiante crema rossastra gli anelli di pasta non risorgono, mollicci, stremati da una cottura prolungata oltre ogni ragionevolezza, completano a perfezione l’oltraggio.

Con questi presupposti ordinare un tiramisù è stato obiettivamente imprudente. Temerario, poi, assaggiarlo dopo aver visto che il cacao usato per la copertura era quello magro (chiaro) che alcuno, nemmeno la più frettolosa massaia, oserebbe mai usare per rivestire lo strato superiore di mascarpone. Il cacao sul tiramisù deve essere quello amaro, amici di Verace. Ho assaggiato per golosità e cosa posso aver mai trovato se non un mascarpone insapore e dei savoiardi (erano savoiardi?) bianchi a denunciare un insufficiente bagno nel caffé?

Terribile esperienza.
Mano tagliolini_sito

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