Derive da “Lulù? Oui, ce moi” e una vecchia bottiglia di un estinto Taurasi

Giorni fa, sistemando la cantina, vennero fuori alcune bottiglie d’annata, oramai dimenticate.

Tra queste il millesimo 1997 del Taurasi Selve di Luoti, prodotto dai Feudi di San Gregorio.

Sedici anni dalla vendemmia, dunque, ma la bottiglia non li dimostra: l’etichetta ha ceduto solo in un angolo ma è bellissima, di carta ruvida, goffrata, corposa, nient’affatto ingiallita, il nome del vino stampato in un rosso intenso con caratteri ruvidi anch’essi, spigolosi che però sembrano avere a che fare che fare con l’immaginario e la favola, evocando iscrizioni sul legno di abitanti della foresta di Sherwood e poi, a come a sottolineare la preziosità del vino e la minuziosità del lavoro svolto per estrarlo dalle uve, la riproduzione di un dettaglio di un mosaico pompeiano.

Infine quel sigillo in rilievo sul vetro, quasi a menar vanto di una nobiltà che in effetti i Feudi, partendo dal nulla, avevano raggiunto.

Insomma una bottiglia ed un’etichetta che annunciano, anticipano, preparano. In questo almeno, nella coerenza tra la comunicazione dell’etichetta e il contenuto della bottiglia, i Feudi sono rimasti nel tempo fedeli a se stessi.

Oggi abbiamo etichette minimal, in pellicola plastica, con un pallino (l’ideatore lo chiama “disco”) colorato ed il nome del vino. Un’etichetta liscia, griffata (ideata da un grande designer italiano), trendy, casual, “fresca”, riconoscibile ma inespressiva, almeno per come la percepisce il gour_man. E del resto i vini dei Feudi sono oggi essenzialmente trendy, di quelli di cui si dice “ben fatti” o “piacciono alle donne” (ma che donne frequentate, mi vien da chiedere?): rotondi al palato, di gusto “equlibrato” ossia sostanzialmente neutro, con profumi intensi, per lo più fruttati.

Mi torna in mente la vecchia pubblicità di un eau de toilette pour dames che recitava così:

“Lulù? Oui, ce moi”

Parafrasando per l’occasione, avremmo:

“Banana? Oui, ce moi”, “Amarena? Oui, ce moi”

e così via con la pera matura, la mora, la mandorla e via discorrendo ed altri scontati, chiari e banali profumi. Vini insomma destinati al mercato dell’omologazione “morbida“.

Vi è da dire che i Feudi di San Gregorio portano la bandiera dei vini campani in tutto il mondo, forti di una straordinaria ed impareggiata rete di vendita e di una penetrazione commerciale davvero difficile da realizzare e mantenuta grazie ad una elevata qualità “standard”, con vini che si ripetono annata dopo annata. Ricordo che già una ventina di anni fa, nel nord Italia, i Feudi erano tra le pochissime etichette campane disponibili nei ristoranti e nelle enoteche.

Ma torniamo alla bottiglia del Selve di Luoti 1997; la trovo, la coccolo, la fotografo e la posto su facebook, suscitando la reazione del mio enotecario di fiducia nonché amico, Luigi Marotti, del bar Elisa di Benevento.

Mi contatta e mi racconta che il Selve di Luoti oramai i Feudi non lo producono più e non per scelta: quell’etichetta marchiava il frutto della vendemmia di magnifiche vigne, nella valle del calore, che l’azienda conduceva per averli in fitto da un anziano contadino. Ed era successo che, con le vicissitudini societarie della cantina, il proprietario del vigneto aveva ritirato la concessione.

Un inverno lungo e poco soleggiato, una primavera breve e piovosa, un’estate torrida e lunghissima fecero del 1997 un’annata eccezionale.

Dunque avevo un’etichetta fuori produzione, di un’annata straordinaria, di quella che allora era una cantina che produceva bottiglie d’eccezione.

Sedici anni di mezzo dalla vendemmia al rinvenimento nella mia cantina.

Il racconto di Luigi non lascia spazio ad altre possibilità: la bottiglia va aperta. La data viene fissata. L’appuntamento è per un martedì sera in enoteca.

Il rituale ha inizio il primo pomeriggio, segretamente, nel buio della mia cantina, con il prelevamento della bottiglia e la consegna a Luigi affinché la apra e consenta al vino, finalmente, di rivedere luce e riprendere aria dopo sedici anni.

La forzata clausura di questa materia organica, di questo “territorio liquido”, la resistenza alla tentazione di stappare ripropostasi negli anni ad ogni riordino di cantina, devono trovar giustizia e senso in un piacere profondo, capillare. 

E’ questo quel che ci aspettiamo. All’ora prestabilita iniziamo l’esperienza. Il tappo è perfetto, un unico pezzo di sughero bagnato per il contatto col vino ma non impregnato, profumo limpido. Si presagisce il meglio, si prosegue. Luigi versa.

Colpisce immediatamente il colore: ancora rosso, seppure intenso e profondo, pressoché impenetrabile; giusto un alone d’arancio balena, inclinando il bicchiere. Siamo stupiti e sempre più incuriositi. I profumi sono evoluti ma non ancora di “terzo stadio”, frutti maturi piuttosto che terra, spezie piuttosto che cuoio. Il vero shock è la freschezza che il Selve di Luoti ancora conserva e la moderata aggressività del tannino che ancora mordicchia alle articolazioni delle mascelle, al punto che a Luigi vien da dire: “e quando era giovane che succedeva? rimanevi così!” e fa la smorfia di un sorriso tiratissimo.

Non è ancora “levigato” il Selve di Luoti 1997, ha ancora delle piccole splendide spigolosità, come ci comunicavano i caratteri in etichetta. C’è la verità del vitigno in quei morsetti alle mascelle. 

Un paio di fortunati avventori si trovano a passare in enoteca e, come vuole il codice di ogni buon bevitore, vengono resi compartecipi, cooptati con un calice gratuito. E’ il bello di stappare in enoteca: una volta aperto il vino diventa bene comune, ciascuno lo deve provare. Il convivio è casuale.

Abbiam anche mangiucchiato, spostandoci al nord, uno spicchietto di pecorino di Pienza, un crostino tartufato, qualche pezzetto di strolghino.

Il vino finì, la serata pure. Alla prossima bottiglia.

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convivio

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