Alla ricerca della mozzarella perduta

E’ un panorama di contraddizioni l’escursione a Paestum per l’edizione 2015 de “Le strade della mozzarella”.

La benevola e bizzarra complicità del navigatore satellitare mi conduce alla meta e mi riporta a casa, disorientandomi lungo quello che mi pare un nastro grigio che taglia desolate pianure ordinatamente coltivate, attraversa angoscianti aree industriali dismesse, si ingarbuglia per scombinati centri urbani, lambisce l’immensa distesa azzurra del mare, si spezza innanzi al postmoderno posticcio e kitsch degli albergoni costruititi a ridosso delle pinete. C’è in tutto questo una metafora della Campania e della nostra autentica capacità di costruire scadimento quasi per aver l’occasione di dimostrare di saperne occasionalmente rinascere.

“Le strade della mozzarella” aspirerebbe, appunto, ad essere un’occasione di rinascimento per l’immagine di  un prodotto eccezionale che rischia costantemente di essere travolto dalla cattiva nomea che affligge il nostro tormentato territorio. Secondo alcuni, per lo più coinvolti nella rassegna come partner, moderatori o sponsor e loro affiliati, che ne parlano in termini di uno dei maggiori eventi gastronomici d’Italia, l’obiettivo è ben perseguito.

Peccato che ciò che viene presentato come congresso sia in realtà uno sfarzoso susseguirsi di showcooking il cui vero obiettivo pare più l’ostentazione effimera della fama dello chef che non l’esplorazione e la scoperta delle caratteristiche e delle potenzialità di una produzione. Non un approfondimento scientifico, non una discussione, non un’analisi, non un focus nonostante il peso che oggi ha lo storytelling delle produzioni. Il territorio, poi, quello senza il quale il prodotto non è nulla (e difatti si parla o si dovrebbe parlare di Mozzarella di Bufala Campana), resta nascosto, sottaciuto, isolato; nessun coinvolgimento di istituti alberghieri locali, di giovani che potrebbero vivere un’esperienza al fianco dei grandi nomi della cucina internazionale ed in qualche modo seminare il territorio.  Addirittura anche l’aspetto gustativo è messo al margine (per ciascun lab sono più i posti in platea che non quelli a tavola).

Nelle sale dello show i veri protagonisti sono le fotocamere con megaobittivi, le luci da studio tv, i poderosi bracci meccanici delle telecamere, lo scintillio che sa molto di fuffafood. Tutti fotografano, riprendono, flashano, quasi nessuno mangia.

Massimo Bottura cucina i coglioni di bufalo mentre Christian Puglisi nasconde la mozzarella, dopo averla irritualmente spruzzata di sale, sotto una maionese di noci e filangè di topinambur e funghi e annuncia la via danese alla mozzarella campana: lui se la fa a Copenaghen.

Si ha la sensazione di essere alla ricerca della mozzarella perduta. Nella piccola rassegna di espositori/sponsor il Consorzio della Mozzarella di Bufala Campana si presenta dimessamente con un treccione e poco altro. La fattura resta ignota perché, mi dicono, non si può urtare la sensibilità degli associati. Manco si riesce a sapere se sia aversana o salernitana o di chissà dove. Potrebbe anche averla portata Puglisi dalla Danimarca, insomma. L’illuminante paradosso giunge al banco dell’Assodop innanzi al cui ben di dio si può pensare che le strade della mozzarella siano lastricate di Gorgonzola, Asiago, Grana Padano, Piave e pecorini toscani, tutti ben esposti e proposti per l’assaggio.

Non è chiaro cosa c’entri tutto questo con la mozzarella di bufala campana, con il consolidamento del suo nome, con l’apprezzamento delle sua qualità, con la divulgazione delle sue caratteristiche, con la qualità che dovrebbe garantire il marchio.

L’iniziativa si ha l’idea sia costruita solo per imbastire il racconto banale della mozzarella grondante sui banchi delle cucine più apprezzate d’Europa. Certo viviamo un’epoca in cui il gusto assume una connotazione sempre più iconica e la costruzione può avere un ritorno (è di questi giorni la geniale intuizione di Mc Donald che ha spacciato per hamburger gourmet i suoi ordinari hamburger di fast food, allestendo a Milano, senza uso del proprio marchio, un locale frufru per fighetti del cibo, i quali hanno ovviamente  molto apprezzato).

La conoscenza del cibo e la cultura del gusto, però, costituiscono l’unico argine possibile contro la contraffazione e la confusione. La tutela e la valorizzazione di un presidio gastronomico territoriale  dipende dalla diffusione della conoscenza del prodotto e del territorio che lo esprime. In sostanza se Bottura può, con l’applicazione del suo genio elevare i testicoli di bufalo a gran portata, non si può pensare di coglionare il mondo a lungo con iniziative che nonostante i lodevoli obiettivi declamati mirano solo all’immagine.

 

Articolo apparso sul “ROMA” del 17 aprile 2015 nella rubrica Odissea Gastronomica

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