Esperienza Unico

Il solitario e malinconico viaggiatore che, giunto a Milano la domenica pomeriggio, volesse compilare la lista dei ristoranti presso cui cercare un’esperienza capace di affrancarlo da avvilenti pensieri e dalla consueta inquietudine che accompagna l’epilogo domenicale, col presagio degli impegni del lunedì, finisce per infrangersi contro una lunga scogliera di “chiuso domenica”.

La lista, dunque, al culmine di lunghe ed accanite ricerche tra guide, siti specializzati, consigli di amici, è ben corta; la scelta cade, senza che mi sia chiaro il perché, perché, su “UNICO RESTAURANT” dello chef Fabio Baldassarre.

Le letture mi avevano messo sul chi va là: lo si raggiunge al termine di un labirintico percorso tra gru di edifici in costruzione. Inutile affidarsi al navigatore nella zona in completa trasformazione di Fiera Milano City, i cantieri aperti delle residenze ostentatamente griffate da archistar e gli altri altri, imprecisati, impongono di procedere a vista verso il grattacielo WJC.

Unico Restaurant è lì, al ventesimo piano. Impiego tempo ma ce la faccio. All’arrivo, tuttavia, non esulto, mi tornano, piuttosto, in mente le inquietanti righe di Valerio Visintin (curatore di Mangiare a Milano, rubrica di Vivimilano, Corriere della Sera): “Tornelli, spazi deserti, cieli di tubi…citofoni, altri tornelli, ascensore……un filo d’angoscia nel cuore”. Inizio a maledire la consuetudine di sfidare i giudizi più severi, la curiosità di verificare il bene e il male. La mia agorafobia in quella piazza coperta e desolata, all’ammezzato del World Join Center, spruzza nelle vene adrenalina paralizzante. L’ascensore ci mette del sovrappiù, fermandosi al 7° senza aprirsi, fortuna che subito riprende la corsa verso il cielo. E lì, si sa, ci sono le stelle: quelle che brillano nel drappo di cielo turchino, rapidamente volgente al nero della notte, che avvolge le vetrate della sala e poi quelle che di lì a poco inizieranno a brillare nei miei occhi per le pietanze ed il fascino della donna dai capelli scuri e ricci seduta al tavolo alla mia destra con un giovinazzo del tutto inadeguato alla sua dolcezza.

Mentre avvio il film di questo amore estemporaneo, il maitre, con tono cordiale sino all’eccesso, mi sussurra: “Franciacorta rosè o bianco?” Scelgo il bianco e non mi soddisfa, turbando il ben diverso apprezzamento che avrebbero meritato le pallotte di cacio e pepe e gli airbag di pane.

Dopo lunga esitazione, indotta per lo più dalla presenza in lista del “vitello tonnato”, opto per il menù degustrazione “nove tentazioni e scelgo lo Chablis piuttosto comune di Albert Pic per riprendermi dalla delusione delle bollicine lombarde.

Attendo la prima portata, osservando la sala di stile ricercatamente contemporaneo, come si addice ad un ristorante panoramico al 20° piano di un grattacielo. Non siamo a Napoli e manco a Parigi, il fascino è quello dell’altezza e delle lucine lampeggianti dei palazzi più alti, si vede in lontananza il Duomo, per il resto il panorama è fatto di strisce di asfalto, tetti anonimi ed enormi bracci di gru.

Si ha, tuttavia, la sensazione di mangiare sospesi nel firmamento: i tavoli, spaziosi, rivestiti in pelle, con tovagliette americane in metallo pesante, griffate col nome dello chef, sono appoggiati alle vetrate. Belle sculture ceramiche raffigurano uccelli, sistemate in fondo al tavolo al confine col cielo. L’effetto è fascinoso.

L’attento cameriere mi serve la “battuta di gamberi rossi di Mazara con maionese di bottarga e frutto della passione”, si tratta probabilmente di uno dei piatti migliori del menù. La giusta morbidezza dei gamberi crudi battuti (eccelsi) è spezzata da microcubetti croccanti di pane. Il dolce sapore dei gamberi ben si abbina alla sapidità della maionese di bottarga ed al peculiare aroma del frutto della passione. Piatto sublime anche nella presentazione.

Nel tempo breve che mi separa dalla portata successiva scorgo la donna dai capelli scuri che stende il lungo braccio sottile, sporgendo l’indice. Prima che il buio avvolga tutto c’è qualcosa da scoprire; i tavoli sono ben distanziati ed io non sento ciò che ella dice di guardare. Poi finalmente riconosco una sagoma familiare, è lo stadio Meazza a San Siro. Mi si riempie il cuore; la sceneggiatura dell’amore estemporaneo si arricchisce di dettagli, magari è interista ed anche se non lo fosse segue il calcio, riconosce San Siro. La amo sempre più. Occore un altro sorso di Chablis.

La “capasanta con pomodoro e mango” a questo punto mi appare come il tentativo dello chef di riportarmi in terra ed invece finisce per sublimare, con la sua delicatezza, l’intensità del momento.

Le cotture di Baldassarre e dei suoi assistenti, che operano spudoratamente a vista, in una sorta di bunker trasparente posto proprio all’ingresso della sala, sono davvero gentili. I colori, i sapori, le consistenze danno l’idea che i fornelli abbiano docilmente accompagnato gli alimenti al punto della loro massima espressione.

Il “vitello tonnato su composta di limone e capperi con erbe aromatiche” ne fornisce ulteriore prova. La carne, tagliata ben più spessa di quanto si immagini per un vitel tonné, è uniformente rosa. Anche in questo piatto lo chef spezza la morbidezza della carne e della salsa tonnata, che in realtà è una mousse, con i granuli di pane croccante. La composta, nascosta sotto i dischetti di carne, controbilancia l’invadenza sapida del tonno. Il piatto che mi scoraggiava nella scelta del menù, dunque, si rivela tutt’altro che deludente e scontato.

Si passa ai primi, i piatti, a mio avviso, meno interessanti e meno riusciti del menù. La “zuppa di cannellini con borragine, stracci di pasta e ricotta fresca” è una buona esecuzione e nulla più. Mi deludono del tutto, poi, i “mezzi paccheri Vicidomini con fiori di zucca e calamaretti al peperoncino”, piatto annientato da una sfacciata e troppo larga manciata di origano.

La donna dai capelli scuri, lunghi e ricci, si alza per una boccata d’aria in terrazza, noto che indossa i pantaloni, come piace a me, ed è magra, come solitamente non piace a me. Deve essere l’eccezione che conferma la mia regola. Un altro bicchiere di Chablis mi accarezza nell’attesa dei secondi. L’apprezzabile “merluzzo nero con agretti, cipolla rossa e zabaione al marsala” riporta finalmente il piacere del palato ai livelli degli antipasti.

Eccezionale, poi, l’esecuzione della “pluma di maiale iberico con scalogno fondente e broccoletti pugliesi” su cui, ahimé,cade miseramente lo Chablis incapace di reggere la complessità di questo piatto. Anche in questo secondo mi è parso di trovare l’attenzione all’equilibrio tattile del piatto; i broccoletti pugliesi, infatti, ottimi per qualità e condimento di profumatissimo olio extravergine di oliva, risultavano quasi croccanti, giustapponendosi alla morbidezza di una carne evidentemente cotta a lungo.

La selezione di formaggi italiani anticipa il dolce finale, esercizio estetico oltre che culinario: la palla di “sorbetto di sedano su infusione di mango, arance e zenzero” viene servita, infatti, completamente coperta da una nuvola di zucchero filato che finisce sciolto dall’infusione lasciata colare con soave gesto circolare da un bricchetto d’argento. Estasiante.

La donna magra, in pantaloni, dai capelli scuri, lunghi e ricci, è andata via. Il freddo del sorbetto davvero mi riporta in terra.

Conto di € 110,00 per il menù degustazione di 9 portate. Vini e bevande a parte.

La carta dei vini è una buona selezione in cui è spiccato all’occhio sannita il Moscato di Baselice, Masseria Frattasi, prodotto dal mio amico Pasquale Clemente. Distolto dall’eccelsa cena e dalla scintilla di amore per la donna dai capelli scuri non ho pensato di mostrare al maitre i graticci di appassimento di quelle uve di Baselice, fotografate lo scorso settembre nel luogo di produzione. Ma tant’è. Il gour_man è soddisfatto, magari tornerà.

 

Unico Restaurant
Milano, via Achille Papa, 30
Grattacielo WJC, 20° piano
tel. +39 0239261025
 
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